2009

Alfabetizzazione informatica, digital divide e cooperazione.

L’esperienza di Andrea Iacono.
D: Andrea Iacono, fondatore della società di consulenza informatica Humanbit, ma anche cooperante al seguito di varie ONG. Giusto?
R: Sono socio di Humanbit, ma non fondatore: sono entrato solo due anni dopo la nascita della società.

D: Hanno qualcosa in comune le due facce della tua professionalità?
R: Sì, moltissimo. Humanbit s.r.l. è una società di consulenza informatica orientata al web, ed è proprio nell’ambito informatico che ho operato come cooperante. Mentre come socio dell’azienda seguo la gestione tecnica dei progetti, come cooperante mi occupo di formazione informatica: si tratta quindi della stessa professionalità.

D: In quali Paesi sei stato come cooperante e al seguito di quali progetti?
R: Il primo progetto a cui ho partecipato ha avuto luogo in Mozambico, nel 2005. Era focalizzato sulla formazione informatica in una scuola media superiore di Maxixe, in provincia di Inhamabane. Nel secondo progetto ero responsabile di un campo di lavoro sull’utilizzo dei media (in particolare internet), promosso da ARCI e tenutosi nel 2006 a Betlemme, in Palestina. Il terzo e – per ora – ultimo è stato un progetto di formazione informatica del CRIC nei campi profughi saharawi in Algeria, articolato in tre missioni dal 2006 al 2008.

D: Chi erano i beneficiari dei tuoi progetti?
R: Il corso in Mozambico era rivolto a un gruppo di studenti, giovani selezionati fra i migliori della scuola. Il progetto in Algeria, creato per le donne, si rivolgeva a ragazze che vivevano nei campi profughi. In Palestina, invece, i beneficiari erano ragazzi sia italiani sia palestinesi.

D: Quali ostacoli hai incontrato e come li hai superati?
R: Il primo ostacolo in assoluto per un cooperante è la lingua. Esprimersi in un idioma che non ci appartiene, talvolta è davvero frustrante. Nel mio caso, in Mozambico ho lavorato in portoghese, in Algeria in spagnolo (il Sahara Occidentale è un’ex-colonia spagnola) e in Palestina in inglese, cosa che non mi ha permesso di diventare più fluente in nessuna di queste tre lingue.
Il secondo ostacolo, non meno importante, è la differenza culturale. Lavorare in un paese musulmano significa apprendere gli schemi sociali di una società fortemente divisa fra generi: bisogna imparare a chi dare o non dare la mano, a chi rivolgere o meno la parola, etc. Basta poco tempo per apprendere queste codifiche, ma si corre sempre il rischio di fare una “figuraccia” o di mettere in imbarazzo qualcuno. Nei Paesi sub-sahariani, invece, dove le regole sociali sono molto più vicine a quelle a cui siamo abituati in Italia, ciò che mi ha più colpito è la cultura del soprannaturale. Avendo una formazione prettamente scientifica, ho molta difficoltà a ragionare in questi termini, ma forse si tratta di un mio limite! Detto questo, devo aggiungere che tutte le persone con cui ho avuto a che fare sono molto diverse tra di loro e che le caratteristiche culturali si applicano con intensità radicalmente differenti a ognuna di loro: non lasciamoci andare a luoghi comuni fin troppo scontati!
Un’altra difficoltà con cui ci si trova spesso a combattere è la scarsità di risorse materiali cui attingere (tipicamente hardware) per lavorare meglio.

D: Ritieni che i progetti da te seguiti abbiano avuto un’incidenza a breve e a lungo termine sulla realtà locale?
R: Questa è una bella domanda, ma anche quella a cui è più difficile rispondere. Sicuramente i progetti hanno avuto un’incidenza a breve termine, mentre sul lungo periodo è più difficile stabilirlo. Certo, mi sento ancora via mail con alcuni ragazzi dei miei corsi, soprattutto per approfondimenti tecnologici. Viceversa, delle ragazze saharawi una buona parte si è sposata e mi sembra improbabile che riuscirà a mettere a frutto la professionalità acquisita durante il corso.
Sicuramente la mia maggiore soddisfazione sono un paio di miei “alunni”, che adesso formano a loro volta altre persone, innescando quel circolo virtuoso auspicato dai progetti.

D: Ritieni che sia sempre necessario l’intervento delle ONG per sviluppare progetti come quelli da te seguiti?
R: Dipende dalle dimensioni. Progetti molto grandi e complessi hanno necessariamente bisogno delle competenze progettuali delle ONG; viceversa, progetti più piccoli sono a portata di chiunque.

D: Avresti suggerimenti da dare per future “spedizioni”?
R: Senza voler entrare nelle polemiche in cui da qualche anno sono coinvolte le ONG e le loro pratiche, mi limito a dire che, spesso, i progetti vengono scritti dal personale delle organizzazioni non governative, non dai beneficiari. Questo significa che se non si conoscono perfettamente la società, la cultura e l’economia della zona in cui si va a operare, si corre il rischio di scrivere un progetto inefficace, che non tiene conto delle reali esigenze delle persone a cui è diretto, ma solo di quello che “noi” percepiamo della realtà locale.

D: Su La Repubblica dell’11/09/2008 c’è un articolo di Riccardo Stagliano “Se un telefonino salverà il mondo”, dal sottotitolo: “Gli economisti sicuri: la diffusione dei cellulari aiuterà il Terzo Mondo”. Nel testo si afferma: “Il digital divide sta finendo non grazie a un’esplosione di responsabilità civica” scrive sul Guardian l’economista Jeffrey Sachs “ma principalmente attraverso forze di mercato”. E dal momento che “estrema povertà è quasi sinonimo di estremo isolamento”, sostiene l’autore di “The end of poverty”, nella sua previsione di sconfiggerla entro il 2025 “la tecnologia è l’arma più importante”. Sei d’accordo?
R: Sicuramente la tecnologia può aiutare tantissimo i Paesi in via di sviluppo ad accelerare determinate dinamiche, però non sono d’accordo sul fatto che sia “l’arma più importante”. A mio avviso è molto più cruciale l’educazione: per prima cosa dovremmo garantire a tutte le persone il diritto all’istruzione. Il che significa, oltre all’educazione di base, che tutti vengano messi in condizione di conoscere i loro diritti e che ricevano la formazione necessaria a ottenere i risultati migliori nel loro campo (agricoltura, commercio, etc). Certo, i tempi sono più lunghi perché occorre almeno una generazione per vedere i primi risultati, però i risultati sarebbero molto più sostanziali.

dsc_4189

By Eleonora Terrile

Parole scelte con cura

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *